27 settembre 2007

"Gaza vivrà", appello a Prodi contro Israele genocida

“Gaza vivrà” è una petizione a favore della causa palestinese, leggibile e firmabile all’indirizzo web www.gazavive.com. La raccolta di firme, on-line da qualche giorno, ha già mobilitato molti sostenitori dall’Italia e dall’estero. A pubblicizzare l’iniziativa, molti siti internet da vicini alla lotta palestinese.

Fin qui, niente di strano. Moltissime sono infatti le iniziative, i dibattiti e le petizioni per sostenere la creazione di uno stato palestinese a fianco di quello israeliano. Ma le inquietudini, nel caso di “Gaza vivrà”, cominciano dal sottotitolo: “Appello per la fine di un embargo genocida”. “Genocidio”, secondo il dizionario italiano “Sabatini Coletti”, è definito il “metodico sterminio di un intero gruppo etnico o religioso”. Non solo una petizione a favore dei palestinesi, dunque, ma una precisa accusa alla controparte israliana.

Il seguito dell’appello mette in chiaro le cose. Si incomincia con una disamina del conflitto israelo-palestinese nel corso degli anni Novanta. L’appello rinfaccia ad Israele la “sistematica violazione degli accordi” di Oslo del 1993, la “provocatoria ‘passeggiata’ nella spianata di Gerusalemme” da parte di Ariel Sharon e il seguente incremento degli insediamenti coloniali e l’edificazione del muro di sicurezza. L’appello accusa poi Israele di aver cercato di mettere fine alla seconda Intifada travolgendo l’Autorità Nazionale Palestinese e mettendo “a ferro e fuoco i Territori”, con conseguente uccisione, ferimento e rastrellamento di decine di migliaia di palestinesi. Senza contare l’assedio al palazzo presidenziale di Arafat, “bombardato e ridotto a cumulo di macerie”.

Che Israele abbia delle colpe, nessuno lo mette in dubbio. Vero è, ad esempio, che Sharon avrebbe potuto fare a meno di salire alla montagna del Tempio: Arafat chiese espressamente al primo ministro israeliano Barak di impedirglielo, ma Sharon fece di testa sua. Detto ciò, nella prima parte dell’appello “Gaza vivrà” ci sono però dei buchi immensi. Non si dice, ad esempio, che Hamas ha avuto un ruolo di primo piano nel fallimento degli accordi di Oslo, rifiutando la logica della trattativa e predicando solo ed esclusivamente l’uso delle armi contro l’occupante sionista. Non si parla dei kamikaze che giorno dopo giorno si sono fatti esplodere a Gerusalemme e Tel Aviv, con il dichiarato intento di far naufragare il processo di pace. Non si dice che nel 1997 Israele si è ritirato da Hebron, lasciando tutta la Striscia di Gaza e la Cisgiordania in mani palestinesi salvo poi ricevere, come ringraziamento, tre kamikaze che nel solo mese di settembre provocarono cinque morti e più di duecento feriti a Gerusalemme. Nessun cenno al “gran rifiuto” di Arafat in occasione dell’incontro con Barak a Camp David, nel 2000. Nessuna menzione, ancora, alla mancata collaborazione di Arafat nel cercare di frenare il terrorismo palestinese contro la popolazione israeliana. Silenzio assoluto, infine, sul ritiro unilaterale da Gaza dell’agosto 2005.

L’appello prosegue condannando le potenze occidentali. Dopo la vittoria di Hamas, infatti, invece che ascoltare il popolo palestinese l’Occidente avrebbe deciso di “castigarlo decretando un embargo totale contro la Cisgiordania e Gaza”. Seguendo Israele, gli Stati Uniti e l’Unione Europea “congelarono il flusso di aiuti finanziari causando una vera e propria catastrofe umanitaria, ciò allo scopo di costringere un intero popolo a piegare la schiena e ad abbandonare la resistenza”. Secondo gli autori dell’appello “Gaza vivrà”, proprio questa politica occidentale – culminata con l’inserimento di Hamas nella “balck list” delle organizzazioni terroristiche – avrebbe provocato “una fratricida battaglia nel campo palestinese”. Se Hamas ha conquistato con la forza la Striscia di Gaza, con tutte le violenze e le esecuzioni sommarie che seguirono, la colpa è insomma dell’Occidente. Stati Uniti, Europa e Israele sarebbero inoltre i responsabili del “golpe” teso a destituire il governo di Hamas per sostituirlo con uomini di Fatah.

E qui arrivano i toni forti. Dopo aver descritto gli insediamenti coloniali come “città razzialmente segreganti i cui abitanti, armati fino ai denti, agiscono come milizie ausiliarie di Tsahal”, il comunicato mette in evidenza come la conseguenza delle politiche israeliane sia che “un milione e mezzo di esseri umani restano dunque sotto assedio, accerchiati dal filo spinato, senza possibilità nè di uscire nè di entrare. Come nei campi di concentramento nazisti essi sopravvivono in condizioni miserabili, senza cibo nè acqua, senza elettricità nè servizi sanitari essenziali”. Ancora una volta Israle è paragonato ai nazisti, la sua politica a quella del Terzo Reich. E una sola parola può racchiudere tutto questo: “GENOCIDIO!”, appunto.

Per chiudere, si passa alle richieste dirette al governo Prodi. Primo: fine dell’embargo di Gaza e della politica di due pesi e due misure, “per cui chi sostiene al-Fatah mangia e chi sta con Hamas crepa”. Due: il governo parli a livello internazionale della necessità di mettere fine all’assedio militare di Gaza e di aiutare la popolazione assediata. Tre: “Annulli la decisione del governo Berlusconi di considerare Hamas un'organizzazione terrorista riconoscendola invece quale parte integrante del popolo palestinese”. Quattro: si smetta di cooperare con Israele. Richieste che vanno al di là della politica nazionale: rispondere affermativamente, infatti, significherebbe uscire dall’orbita dell’attuale posizione politica europea e degli equilibri internazionali.

A sostegno dell’appello contro il “genocidio” perpetrato da Israele nei confronti dei palestinesi figurano anche personaggi di spicco. Tra i primi firmatari, il filosofo Gianni Vattimo, l’astrofisica Margherita Hack, il poeta Edoardo Sanguineti, il jazzista israeliano Gilad Atzmon e il professor Franco Cardini. Sono davvero sicuri, gli autori dell’appello, che la soluzione per una pace condivisa – due popoli per due stati – sia dare credito ad Hamas? O definire Israele “genocida”? La base di partenza, per una qualsiasi trattativa, è il riconoscimento reciproco: Fatah riconosce Israele, Hamas no. E nel suo statuto fondativo lo dice apertamente. E se Fatah, ad oggi, è andata più volte vicina alla pace con Israele, Hamas ha solo cancellato i passi compiuti per mezzo del terrorismo.

Ci sono due possibilità. Possiamo sostenere Hamas, negare il diritto all’esistenza d’Israele e lottare per un unico popolo – quello palestinese – in un’unica terra – la Palestina –. Oppure possiamo riconoscere Fatah, trattarci e porre le basi per un futuro fatto di due stati che convivono pacificamente, l’uno di fianco all’altro, rispettandosi reciprocamente. L’Occidente, Israele e gran parte dei palestinesi, fortunatamente, hanno già scelto la seconda opzione.
L'Occidentale