Il 1909 è stato un anno fondamentale per la storia della psicanalisi. Sigmund Freud, accompagnato dall’allora discepolo Carl Jung, sbarcò nel Nuovo Mondo per tenere una serie di conferenze alla Carl University di Worchester, Massachussets. Il soggiorno americano di Freud ha sempre costituito un punto di domanda per i biografi: nonostante il successo delle conferenze, infatti, il padre della psicanalisi definì gli americani “selvaggi” e fece risalire al soggiorno negli Stati Uniti disturbi fisici che lo colpirono in realtà molto prima. Cos’è successo, chiedono i biografi, di tanto sgradevole in quei giorni? Perché un giudizio così negativo sull’America, che di lì a poco seguirà entusiasticamente le tesi del dottor Freud? È in questo contesto, a metà strada tra la storia e il mistero, che si cala “L’interpretazione della morte”, romanzo d’esordio di Jed Rubenfeld (eminente costituzionalista americano) già bestseller in patria ed ora pubblicato in Italia da Rizzoli, nella traduzione di Roberta Zuppet.
L’opera di Rubenfeld rientra in un filone, quello del thriller storico, da qualche anno molto prolifico: si pensi solo al successo di colleghi americani come Matthew Pearl (“Il circolo Dante”, “L’ombra di Edgar”), Arthur Phillips (“L’Archeologo”) e via fino all’immancabile Dan Brown (le cui qualità, è bene sottolinearlo, sono anni luce inferiori a quelle dei colleghi). Il procedimento è semplice: si prende un periodo storico, meglio se avvolto da un pizzico di mistero, e ci si mette dentro un omicidio, o un enigma da risolvere. Nel nostro caso, ad intrattenere Freud e i suoi primi discepoli americani è l’assassinio di una ragazza, Elizabeth Riverford, avvenuto ai piani alti di un lussuoso grattacielo newyorchese, seguito a breve distanza da un ulteriore tentato omicidio ai danni dell’affascinante Nora Acton, figlia di una stimata famiglia della Grande Mela (il nome, si sarà intuito, è un chiaro riferimento alla Dora di freudiana memoria). Sarà ovviamente la psicanalisi applicata alla giovane sopravvissuta, unita alle indagini di un (riuscito) investigatore alle prime armi, a sbrogliare la matassa. “L’interpretazione della morte” non si presta ad un giudizio univoco: tanti sono i pro, quanti i contro. Vincenti, senza dubbio, risultano i personaggi dell’investigatore Littlemore e del giovane freudiano Younger, la coppia che giungerà alla soluzione del caso; affascinante è la caratterizzazione di Jung, e del crescente divario che lo separerà dal maestro Freud; accurata, infine, la ricostruzione della New York d’inizio ‘900, alle prese con un boom economico ed edilizio (di assoluta centralità la costruzione del Manhattan Bridge). Non convincono fino in fondo, d’altra parte, tanto un intreccio eccessivamente macchinoso e voluminoso quanto la figura di Freud, dominante nel titolo e nella presentazione dell’opera quanto marginale ai fini del racconto (una scelta che sa di specchietto per le allodole). Detto questo, “L’interpretazione della morte” si presta come una buona lettura da ombrellone, capace di tenere il lettore incollato alle pagine anche se non tutti i passaggi dell’indagine, alla fine, risulteranno perfettamente chiari.
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