All’inizio era una sottile linea rossa. Seicento monaci buddisti si erano messi in strada, pregando sotto la pioggia, per protestare contro il regime militare dell’ex Birmania. Poi è scesa in campo Aung San Suu Kyi, leader dell’opposizione al regime e premio Nobel per la pace: sabato ha pregato con i monaci. E con il Nobel sono arrivati i media: la linea rossa è diventata una valanga che ha invaso le strade del Myanmar, così come le colonne di tutti i giornali mondiali. Oggi alcuni testimoni parlano di 100.000 persone, tra monaci e società civile: una protesta imponente, non violenta, contro la dittatura.
La Birmania ha perso la democrazia nel 1962. Il governo di allora venne abbattuto da un golpe guidato dal Generale Ne Win, che prese il potere per ben 25 anni. Un quarto di secolo in cui i comunisti sono stati perseguitati, i partiti d’opposizione soppressi. Le industrie sono state nazionalizzate, il libero scambio vietato: una dittatura autarchica a tutti gli effetti, in cui i diritti essenziali dell’uomo furono violentemente calpestati. L’era Ne Win finì nel 1988, quando il Generale si dimise dopo il moltiplicarsi delle rivolte studentesche. I morti furono migliaia.
Morto un dittatore, se ne fa un altro. L’anno seguente un altro Generale, Saw Maung, prese il potere con un colpo di stato. Nel 1990 proclama le prime – apparenti – elezioni libere: il premio Nobel Aung San Suu Kyi ha la maggioranza dei seggi, ma il Generale si rifiuta di cedere il potere e cambia il nome dello Stato in Myanmar. Il futuro Nobel per la pace viene arrestata insieme a molti compagni di partito. Rilasciata nel 1995, è stata nuovamente arrestata nel 2002 e nel 2003. Oggi si trova agli arresti domiciliari: da quella casa prega con la valanga di monaci buddisti che invadono in queste ore le strade del suo Paese.
In un documento sull’ex-Birmania dello scorso 5 settembre, "Human Rights Watch" ha concluso che "la giunta militare intende ignorare il sentimento popolare e rimanere al potere a tempo indeterminato". Le prime proteste, ricorda poi "HRW", sono incominciate ad agosto, in seguito ad un brutale aumento dei prezzi. La protesta, inzialmente limitata, portò all’arresto di 150 dimostranti. Oggi, in strada sono, 100.000.
Il governo militare ha annunciato ritorsioni per tutti coloro che scenderanno in piazza, ma questa volta la repressione non sarà così ovvia. Punto primo, la quantità di dimostranti è elevatissima: la protesta ha saputo coniugare la rabbia dei monaci e dei laici, un torrente in piena che cresce d’ora in ora. Secondo, la manifestazione è assolutamente non violenta. Questa volta, infine, i media sono attentissimi: le immagini provenienti dal Myanmar fanno il giro del mondo ora dopo ora, televisione dopo televisione. Una repressione armata dovrebbe fare i conti con l’intero pianeta. A supportare l’imponente opposizione al regime, poi, anche la felice coincidenza della protesta con l’Assemblea Generale dell’Onu. I grandi della terra, tutti riuniti a New York, tengono d’occhio il regime militare e parlano con una voce sola. E George W. Bush, tra i più attenti alla situazione insieme a Condoleeza Rice, ha già annunciato l’imposizione di sanzioni più severe al regime da parte degli americani.
A Yangon, intanto, il fiume rosso continua a sfilare. Incurante del tempo, incurante dei camioncini che "consigliano" di tornare a casa e della tv di Stato che richiama all’ordine. Incurante del rischio di agenti provocatori, che potrebbero essere mandati appositamente per far scoppiare la violenza: a lanciare l’allarme, la "Burma campaign Uk", secondo la quale alcuni militari si sarebbero già rapati a zero per mischiarsi al pacifico corteo degli arancioni. Incurante di tutto, forte solo della più grande manifestazione contro il regime degli ultimi vent’anni e del sostegno incondizionato di tutto l’Occidente.