11 novembre 2007

Con Shlomo Venezia verso il cuore dell'Inferno

"Mi chiamo Shlomo Venezia. Sono nato a Salonicco, in Grecia, il 29 dicembre 1923". Semplice, diretto e chiaro: comincia così Sonderkommando Aushwitz (Rizzoli 2007), l'autobiografia i un ebreo italiano sopravvissuto all'Olocausto. L'autore di questo libro fa parte della schiera di coloro che hanno toccato l'inferno, per poi tornare a vedere le stelle. E al pari di Primo Levi, o di Elie Wiesel, anche Shlomo Venezia ha deciso di raccontare. Con una differenza, però: Sonderkommando Aushwitz, tratto da un'intervista di Béatrice Prasquier, non lascia alcuno spazio alle sfumature letterarie e si limita alla dura, durissima testimonianza. Tornato alla vita, Venezia ha deciso raccontare quello che aveva visto, quello che aveva vissuto sulla propria pelle: lo ha fatto, e lo fa tuttora, viaggiando instancabilmente per le scuole italiane e portando i ragazzi fin dentro al campo di Birkenau. Il libro, edito da Rizzoli, nasce da questa esperienza: quella di Venezia è una scrittura piana, semplice, rivolta a tutti. E proprio per questo universale, rivolta alle generazioni di oggi e a quelle future.

Shlomo Venezia, sin dal cognome, porta i segni di una persecuzione che affonda le radici nell'alba del mondo moderno: "La mia famiglia dovette abbandonare la Spagna al momento dell'espulsione degli ebrei nel XV secolo, ma prima di stabilirsi in Grecia, i miei antenati si fermarono in Italia, per questo mi chiamo 'Venezia'". Cacciati dalla Spagna, infatti, gli ebrei approdati in Italia presero il nome della città in cui trovarono asilo. L'importanza simbolica attribuita alla riconquista di Granada del 1492, che portò alla cacciata degli islamici dalla penisola iberica, fa passare spesso in secondo piano il trattamento riservato dai cattolici agli ebrei: visti come un pericolo per le fondamenta stesse del cristianesimo – in quanto la religione ebraica, molto più "anziana" del cristianesimo, non si poteva liquidare come eresia o aberrazione –, gli ebrei vennero espulsi con un editto firmato il 31 marzo 1492; quattro anni dopo, gli ebrei portoghesi verranno cacciati ancor più brutalmente. Due le possibilità: lasciare la penisola iberica, come fecero gli antenati di Shlomo Venezia, o convertirsi al rango di "marrani" – per essere poi perseguitati e guardati con sospetto.

Dopo la sosta italiana, la famiglia Venezia si trasferì in Grecia: a Salonicco, nel 1923, nasce Shlomo, terzo di cinque figli. La vita in Grecia, ricorda l'autore, scorre inizialmente tranquilla: le notizie, laggiù nel Mediterraneo, arrivano incomplete e distorte, tanto che il padre "non intese mai la vera natura del fascismo: per lui Mussolini era socialista" e, fiero della sua italianità, "non esitò mai a indossare la camicia nera e a sfilare con l'orgoglio dell'ex combattente in tutte le manifestazioni e le parate organizzate dagli italiani". Ma le cose cambiano in fretta. Nel 1938 Maurice, fratello maggiore di Shlomo, torna dall'Italia – dove era stato mandato a studiare – in seguito alla promulgazione delle leggi razziali. Nel 1940, con l'occupazione italiana dell'Albania, la guerra arriva anche in Grecia: "L'Italia bombardò Salonicco incendiando le case e terrorizzando la popolazione". Infine, come preludio all'orrore che verrà, l'istituzione del ghetto di Baron-Hirsch: per Shlomo e per gli ebrei non c'è più nulla da fare. Trasferito ad Atene con la sua famiglia, Venezia viene deportato con il primo convoglio diretto ad Aushwitz-Birkenau, l'11 aprile 1944. Sul treno, secondo il museo di Aushwitz, c'erano 2500 ebrei.

I ricordi dell'arrivo al campo sono incredibilmente simili a quelli di Primo Levi e degli altri testimoni: la discesa dal treno, la separazione dalle donne, la selezione da parte delle Ss, il passaggio dai barbieri – che "non avendo né gli strumenti giusti né sapone, ci scorticavano a sangue" – e dalle docce: "Era tutto organizzato, come in una catena di montaggio di cui noi eravamo i prodotti finali". Shlomo Venezia, prima di ritirare i suoi indumenti, viene marchiato con la matricola 182727.

Rispetto alle testimonianze dei detenuti comuni, quella di Shlomo Venezia ha però una particolarità: è il racconto di chi ha lavorato nel Sonderkommando trasportando corpi, pulendo camere a gas, spogliando gli ebrei in arrivo. Allettato dalla possibilità di una maggior quantità di cibo, Venezia accettò l'incarico senza sapere a cosa stava andando incontro: quando chiese cosa significasse il termine "Sonderkommando", si sentì rispondere "Comando speciale": speciale, perché "lavoriamo nel Crematorio… dove la gente viene bruciata". Al termine della sua testimonianza, l'autore riflette sulle differenze tra i detenuti del Sonderkommando e quelli comuni: "Gli altri sopravvissuti hanno certamente sofferto la fame e il freddo più di me, ma non sono stati costantemente a contatto con i morti. Vedere ogni giorno tutti quei gruppi arrivare ed entrare senza speranza, senza più alcuna fiducia, allo stremo delle forze. Era davvero uno spettacolo terribile".

In cosa consisteva il lavoro nel Sonderkommando? Nel favorire l'efficienza e la rapidità dello sterminio, dall'arrivo dei convogli alla bruciatura dei corpi nelle fosse comuni, passando per le camere a gas. Le vittime venivano prima costrette a spogliarsi davanti alla porta, poi fatte entrare nella "casetta". Chiusa la porta, ecco arrivare un camioncino "con il simbolo della Croce Rossa sulle portiere": a questo punto un tedesco apriva una botola in cima all'edificio, versandoci il contenuto di una scatola. È l'atto finale: "Dopo qualche istante, le grida e i pianti, che non si erano mai interrotti, raddoppiarono. Dopo dieci o dodici minuti, nessun rumore". Di fronte a questo spettacolo, ricorda l'autore, nessun pensiero: "Eravamo diventati degli automi che obbedivano agli ordini e cercavano di non pensare per poter sopravvivere qualche ora in più".
La posizione "privilegiata" del testimone permette a Venezia di prenderci per mano, alla stregua di Virgilio, e di condurci fino al culmine dell'Inferno: l'interno delle camere a gas. Lasciamo la parola a Shlomo Venezia, come risposta a qualsiasi rigurgito negazionista ancora presente nel mondo: "Trovavamo persone con gli occhi fuori dalle orbite a causa della reazione dell'organismo. Altri sanguinavano dappertutto, o si erano sporcati coi propri escrementi o con quelli altrui. Per effetto della paura e del gas spesso le vittime evacuavano tutto quello che avevano in corpo. Alcuni corpi erano completamente rossi, altri pallidissimi, ognuno reagiva diversamente, ma tutti soffrivano durante la morte. Li trovavamo aggrappati gli uni agli altri, ognuno alla ricerca disperata di un po' d'aria. Il gas, buttato a terra, sviluppava degli acidi dal basso; tutti cercavano di raggiungere l'aria, anche se dovevano salire gli uni sugli altri fino a quando anche l'ultimo moriva".

Tra i lavori "da privilegiato", quello di sgomberare le camere a gas: "La scena che ci si presentava aprendo la porta era atroce, impossibile farsene un'idea". I primi giorni, ricorda Venezia, faceva fatica persino a mangiare: "L'odore rimaneva sulle mani, mi sentivo insudiciato dalla morte". Ma col tempo ci si abitua a tutto: anche a dover aiutare il tedesco ad aprire la botola per immettere il gas. Quando il tedesco decide che tutti sono morti, la porta viene riaperta: "Difficile distinguere tra il fetore del gas e quello dei cadaveri e del liquame umano". Venezia doveva tagliare i capelli delle donne, dopodichè i corpi potevano essere cremati: "Per tirar fuori i corpi dalla camera a gas non c'era bisogno di versare dell'acqua per terra; il pavimento era già bagnato di tutto: sangue, escrementi, urina, vomito, tutto… e a volte ci scivolavamo dentro".

Sì, l'Inferno. Dopo aver guardato in faccia il diavolo, si può solo morire o risalire. Shlomo è risalito, dopo essere stato trasferito a Mauthausen, Melk ed Ebensee. Infine, la libertà: "Arrivarono un mattino verso le undici. Sul primo carro armato c'erano degli americani di origine italiana; non capivo il loro accento siciliano. Per caso, sul secondo blindato c'erano dei figli di immigrati greci. Mi raccontarono delle migliaia di morti che avevano trovato negli altri campi liberati lungo il cammino". Tornare a vivere, per Shlomo Venezia, significa anche ammalarsi di tubercolosi e trascorrere molti anni in un ospedale a Merano, gestito dall'organizzazione ebraica "American Joint Committee": la stessa organizzazione che l'aiuterà a reinserirsi nella società e a farsi una nuova vita, una nuova famiglia. A Grottaferrata, dove si trova per un corso d'inglese, Venezia conosce Marika, che diventerà sua moglie e madre dei suoi figli. Sette anni dopo la liberazione, a Napoli, Shlomo rivede suo fratello. Nel 1957, ad Haifa, la sorella: "Di tutta la nostra famiglia eravamo sopravvissuti in tre: un miracolo, se si pensa a tutte le famiglie che sono state completamente sterminate e di cui non resta nessuno a conservare il ricordo".

Non è stato facile scegliere la via della testimonianza. Ma, scriveva Primo Levi nella poesia che apre Se questo è un uomo, "Meditate che questo è stato: / Vi comando queste parole. / Scolpitele nel vostro cuore / Stando in casa andando per via, / Coricandovi alzandovi; / Ripetetele ai vostri figli". E Shlomo Venezia, quelle parole d'orrore, le ripete incessantemente: "Ho iniziato a raccontare quello che avevo visto e vissuto a Birkenau molto tempo dopo, non perché non ne volessi parlare ma per il fatto che le persone non volevano ascoltare, non volevano crederci". Sei milioni di ebrei gasati nei campi di sterminio? Per la maggior parte degli ascoltatori, era semplicemente assurdo: "Per me parlarne era una sofferenza e quando mi trovavo di fronte a persone che non mi credevano mi dicevo che era inutile".

Poi, nel 1992, Venezia inizia l'interminabile serie delle sue testimonianze: dalla liberazione, sono passati 47 anni. Quasi mezzo secolo alle prese con una malattia oscura, quella del sopravvissuto: "La nostra è una malattia che ci rode di dentro e che distrugge ogni sentimento di felicità. Ce l'ho dal tempo della sofferenza nel campo e on mi lascia mai un momento di felicità o di spensieratezza, è uno stato d'animo che logora le mie forze continuamente". E la vita non sarà mai più la stessa: "Tutto mi riporta al campo. Qualunque cosa faccia, qualsiasi cosa veda, il mio spirito torna sempre nello stesso posto. […] Non si esce mai, per davvero, dal Crematorio". Secondo alcuni, è stata proprio quella malattia divorante a spingere Primo Levi giù dalla tromba delle scale. Vent'anni fa: era l'11 aprile 1987.