Questo nostro Paese è in debito con Francesco, Ludovica, Andrea e gli altri bambini sepolti ieri, con tutti quei padri e madri e nonni e fratelli, nella dura terra abruzzese. Deve onorare, mentre si asciuga le lacrime di una cerimonia funebre che toglieva il fiato con quei giocattoli posati su piccole bare bianche, una serie di impegni. Il primo, su cui ha già speso la sua parola il premier, è la massima trasparenza. Si sa come andò, purtroppo, in Irpinia. I comuni terremotati iniziali erano 36: diventarono 687. Le case distrutte o danneggiate poco più di 28 mila: diventarono 474.583. Col risultato che quei soldi distribuiti dall'alto, a pioggia, per motivi massicciamente clientelari, finirono troppo spesso ai furbi e non ai bisognosi. Alla larga. Meglio il modello voluto dai friulani: delega dello Stato alla Regione, della Regione ai Comuni, dei Comuni alle famiglie. Un antipasto di federalismo che funzionò al punto che Manzano votò una delibera per dire: grazie, ma non abbiamo avuto danni, concentrate gli aiuti dandoli a chi ne ha bisogno.
Secondo impegno: massima semplicità burocratica. I terremotati dell'Umbria, nel '98, si ritrovarono alle prese con testi da delirio: «Le graduatorie di cui al comma 1 sono formate con l'utilizzazione degli indicatori di cui all’art. 6, comma 4, lettera a), numeri 1, 2, 3...». Inaccettabile, per chi già ha perso tutto. Il che non vuol dire che a chi ha perso tutto, come è già successo, sia consentito (in deroga) tutto. Le regole devono essere poche e chiare, ma regole: non un mattone, non una trave, non un coppo possono essere più posati senza il rispetto di criteri anti-sismici. Berlusconi è un uomo che ama le sfide temerarie? Eccone una: fare della ricostruzione dell'Abruzzo (e l'idea degli incentivi a chi adegua la propria casa ai criteri di sicurezza va in questo senso) un modello di come una catastrofe possa essere ribaltata in una formidabile occasione di rilancio, di risanamento di un territorio a rischio, di ottimismo. Di rinascimento del patrimonio artistico e architettonico.
Terzo impegno, ascoltare le popolazioni colpite. Come ricorda Luciano Di Sopra, che calcolò i danni e stese il piano di ricostruzione dopo il sisma, anche nel ’76 l’idea iniziale era di costruire «new town» tra Udine e Pordenone. E ci fu chi propose di coprire con una cupola le macerie del duomo di Venzone per farne un «monumento del ricordo» come le macerie di Gibellina erano state coperte da una colata di cemento bianco. La gente disse no, raccolse le 7650 pietre, le numerò e rimise in piedi il «suo» duomo: com’era e dov’era. L’antica Gemona, spendendo un 20% in più che a farla nuova, fu consolidata in chiave anti-sismica e i vecchi ci si riconoscono. Nella nuova Gibellina, costruita a 18 km di distanza su un acquitrino dei cugini Salvo, i vecchi maledicono le stramberie di calcestruzzo di chi ideò case e piazze metafisiche senza immaginare un Bar sport.
Ultimo impegno: ricordare. Non tagliare del 30% i finanziamenti ai Vigili del fuoco appena si sarà posata la polvere del sisma, non accettare che le inchieste su certi crolli si trascinino all’infinito per finire in prescrizione, non rinviare mai più il varo di una legge che aiuti il rilancio dell’edilizia in un quadro di norme chiare, che non possono essere rigide o lassiste a seconda di come tira il vento. Questo è il rispetto per i morti di ieri: ricordarsene domani.
Gian Antonio Stella
(C) Corriere della Sera