17 maggio 2009

I torinesi di Patrizia Varetto hanno un cuore fragile e imperfetto

Patrizia Varetto conosce molto bene il mondo della narrativa. Specializzata in diritto d’autore, ha lavorato per 16 anni nel sistema dell’editoria; è stata apprezzata traduttrice riscoprendo piccoli classici dimenticati. Un bel giorno però – come racconta a “l’Occidentale” – ha deciso di percorrere la strada della scrittura. Il risultato è Cuori imperfetti, il suo romanzo d’esordio, pubblicato quest’anno da Mondadori. Il libro viene presentato oggi alla Fiera del Libro di Torino (ore 13.00, spazio Boostock). Sullo sfondo di una Torino inquieta e affascinante, l’autrice dipinge le vite di personaggi legati dall’amore e vincolati dalla solitudine, in un mondo di relazioni irrimediabilmente imperfette.

Signora Varetto, com’è maturata l’idea di “Cuori imperfetti”? Cosa l’ha spinta a mettersi in gioco direttamente come autrice?

Ho sempre coltivato il desiderio di scrivere ma il lavoro decisamente impegnativo che ho svolto prima in editoria, e poi nel settore della comunicazione, non era conciliabile con un’attività come la scrittura che richiede non solo tempo a disposizione, ma anche energia e dedizione assoluta. Inoltre, come credo succeda a molti lettori accaniti, come io sono stata e sono tuttora, le pagine lette – o almeno quelle che segnano – non vanno perdute. Si stratificano, si accumulano e a un certo punto affiorano “rielaborate”. Nel mio caso, a un certo punto, è affiorata una storia, che si è popolata di personaggi. Prima Carla, poi Alessandro, poi Luca. Ho cominciato a guardarli, a vivere con loro e da lì è partita la scrittura. Quei personaggi erano e sono talmente veri nella mia percezione che ho faticato molto a separarmi da loro, a libro finito.

Il titolo del libro rappresenta perfettamente i personaggi. Pensiamo a Marta che sceglie di dividersi tra due famiglie. Crede che i suoi personaggi, sospesi tra emozioni e solitudine, risentano della mancanza di punti di riferimento stabili?

Sì, certo. La prima causa di instabilità è la mancanza di un punto di riferimento con sé stessi. La difficoltà di trovare un punto di equilibrio interno. E questo smarrimento non riguarda solo gli adolescenti, come sarebbe naturale, ma anche gli adulti, sollecitati da aspettative indotte, imprigionati da ruoli imposti. Tutte “coperture” che quando siamo messi a confronto e contatto con i sentimenti, saltano. La realtà esterna, poi, non aiuta ma aumenta queste difficoltà. Il senso di insicurezza, la perdita di valori, i ritmi della società moderna ci rendono fragili. Inseguiti da qualcosa e inseguitori di qualcosa che non si sa cos’è. Fino a che non si trova il coraggio di fermarsi.

La maturità di Marta, l’età adulta di Carla e Luca, l’adolescenza inquieta di Alessandro: come ha maturato i caratteri dei suoi personaggi? Quali sente più vicini alla sua esperienza personale?

Un romanzo come “Cuori imperfetti”, decisamente introspettivo, pesca inevitabilmente nel mio vissuto. Non nel senso strettamente autobiografico ma nel senso dell’ esperienza esistenziale. Quella di una donna che è stata figlia, che è stata “donna in carriera”, che è madre. Di una persona che è passata attraverso lutti e malattie e che ha cercato e cerca, se non di trovarci un senso (perché spesso il dolore non ne ha), almeno di elaborarli per poterseli lasciare alle spalle e proseguire comunque in quel percorso accidentato e straordinario che è la vita.

A fare da sfondo alle vicende del libro è Torino, la città in cui lei è nata e cresciuta. Presenza forte e affascinante, anche nei suoi tratti più bui. La Torino del romanzo è la stessa che vede tutti i giorni?

Quella che ho descritto è la Torino che vedo, la mia città. La amo e la detesto allo stesso tempo. La vivo come intellettualmente supponente, di una supponenza molto provinciale. La vivo come città “chiusa” che sbandiera la sua apertura, il suo essere internazionale. Un po’ più di misura non guasterebbe. Forse più di altre città Torino è una realtà che nel tentativo di passaggio a una nuova identità ci ha messo un po’ troppo furore, un po’ troppa autoreferenzialità. Detto questo, la città degli ultimi anni è migliorata anche grazie agli ottimi professionisti che ci lavorano. Quelli il cui nome resta ignoto, quelli che “ruscano” davvero come si dice dalle nostre parti. Ma quell’imprinting di città sabauda, un po’ spocchiosa, resta. Deve essere un fatto di DNA.

Un capitolo del romanzo è dedicato al funerale degli operai della Thyssen. Cosa ha rappresentato – per lei e per Torino – quella tragedia?

L’ho vissuta esattamente come Carla nel romanzo. Ero presente ai funerali e sentivo il dolore della gente pressata nella piazza, il contrasto tra il funerale-spettacolo e il dolore corale, autentico, che entrava sottopelle. Ma non so dire se quella tragedia ha davvero significato qualcosa, perché purtroppo di lavoro si continua a morire e non solo per fatalità.

Approfittando dei suoi trascorsi in editoria, allarghiamo il discorso al panorama letterario italiano. Molti autori con un romanzo nel cassetto si chiedono se è ancora possibile essere pubblicati inviando il proprio manoscritto… Qual è la sua esperienza?

Io sono stata fortunata. Mancavo dall’editoria da molti anni, più di quindici e quindi non avevo più riferimenti all’interno delle case editrici. Ho affidato il dattiloscritto a un’agenzia letteraria e mi sono preparata ad aspettare mesi una risposta. Inaspettatamente nell’arco di qualche giorno ho ricevuto più offerte. Non credo dipenda solo dal merito: chissà quante belle storie rimangono sepolte sotto una pila di dattiloscritti, sulle scrivanie degli editor…

La sua casa editrice, Mondadori, ha lanciato Paolo Giordano – uno dei più fortunati casi letterari degli ultimi anni. Come giudica la giovane narrativa italiana? Vede dei talenti all’orizzonte?

Devo confessare che leggo poco le novità. E non per snobismo; sento di avere ancora troppo lacune sul fronte dei classici della letteratura. Giovani autori interessanti sono sicuramente Fabio Geda e Andrea Bajani, entrambi torinesi; un vero talento a mio avviso è il “giovane” novantenne Pahor, pubblicato da Fazi.

L’ultima domanda la riserviamo ai premi letterari. Dopo lo scandalo del Grinzane Cavour e i “sospetti” sullo Strega, crede che abbiano ancora un significato? Ad essere premiato è il merito artistico o l’editore più forte?

A essere premiato non è quasi mai il merito artistico. Quanti buoni libri escono e non se ne sa nulla solo perché editi da piccoli editori o perché non c’è qualche buon PR alle spalle, qualche regina dei salotti che fa da traino, qualche padrino illustre? Credo però che la scrittura sia una delle poche attività in cui il talento alla fine viene fuori perché i lettori restano i veri giudici. Imparziali e appassionati.

L'Occidentale