16 luglio 2009

Con gli uomini che vanno sulla Luna

Per andare sulla Luna si parte da qui: un punto del nostro pianeta che un tempo chiamavano Cape Canaveral ed ora chiamano Cape Kennedy, dal nome dell’uomo che pagò con la vita anche il sogno di navigare gli spazi. La regione dove esso si trova è indicata sulle mappe terrestri come Florida, è baciata da un’estate perpetua, ed è considerata il grosso laboratorio scientifico dell’emisfero occidentale. Dico occidentale perché per andare sulla Luna si parte, chiunque lo sa, anche da un altro punto del nostro pianeta: quello nella regione indicata sulle mappe terrestri come Kazahstan. Lì però bisogna parlare benissimo il russo, essere iscritti al partito locale, e impegnarsi a non fare la spia a quelli della Florida. Tutto il contrario di ciò che accade in Florida dove bisogna parlare benissimo inglese, non essere iscritti al partito suddetto, e impegnarsi a non fare la spia a quelli del Kazahstan. Tra le due regioni v’è infatti una concorrenza spietata, paragonabile a quella delle compagnie aeree che fanno lo stesso tragitto, con l’aggravante che il biglietto non è utilizzabile su entrambe le compagnie, come s’usa nei viaggi terrestri: o si parte di qui o si parte di là. Secondo me è meglio di qui: il razzoporto è eccellente, circondato da dodicimila chilometri di mare profondo dove le astronavi possono precipitare senza colpir l’abitato, e la preparazione psicologica addirittura perfetta. Coperto da un sudario di sabbia, di asfalto, di sale marino, il luogo è così brutto che quando ci sei non ti resta che andare sulla Luna dove, se non è meglio, peggio non è. Non a caso scienziati prolissi lo portano a esempio della prossima stazione spaziale. Estinti i sugheri, le palme, i lillà, le trecentoventotto specie di alberi che lo ossigenavano, vi trionfano le piante di plastica; i prati sintetici si comprano al supermarket come la stoffa. Estinti i coccodrilli, i topi, le zanzare, vi sopravvivono solo i pescicani impiegati dalla NASA per divorare i curiosi che bagnan nel mare anziché nelle piscine, e ciò che qui chiamano uccelli non sono gli uccelli ma i razzi o i missili: sicché chi va a caccia e dice “ho preso un uccello” finisce immediatamente in galera. I motel, che sono alberghi per l’uomo e l’automobile, hanno nomi come Satellite, Vanguard, Polaris e non dispongono di camerieri ma di esperti robot: robot per lucidare le scarpe, robot per far i caffè, robot per massaggiare chi è stanco. I giocattoli sono quelli che i figli dei cosmopionieri useranno nelle colonie lunari destinate a sorgere sulla Vallata della Eterna Luce: tutine spaziali, bombolette di ossigeno, astronavicelle che prendono il volo per mezzo di batterie solari. Le cartoline da spedire agli amici non riproducono paesaggi ma razzi, missili, depositi di kerosene, astronauti chiusi nelle capsule Mercury; la Terra che noi conoscemmo è dimenticata da tempo e nella desolata pianura si scorgono solo le torri di lancio: cattedrali di un’era che ha sostituto la liturgia con la tecnica.

IL CONTO ALLA ROVESCIA

Ma cosa succede quando l’uomo da un porto allo spazio spicca il volo verso l’immensità? Sui brividi del conto alla rovescia e sulla partenza per la Luna parla David Morris, medico della NASA.

“HANNO tutti paura quando sono lassù. Nessuno resiste all’angoscia della voce che conta a rovescio prima che esploda l’enorme fiammata. Più i numeri scendono… meno sette… meno sei… meno cinque meno quattro meno tre… più i battiti del cuore salgono. Shepard, che era salito scherzando, mantenne ottanta pulsazioni al minuto durante la conta finale: ma quando arrivò il meno sette le pulsazioni gli salirono a novanta, al meno quattro erano a novantacinque, allo zero erano a cento. Poi si accesero i fuochi e le pulsazioni salirono a centonove. Poi il razzo partì e le pulsazioni salirono a centoquindici, centoventi, centoventicinque, centotrenta, centotrentacinque, centotrentotto. Per un lungo minuto, il minuto durante il quale si ignora se il razzo continuerà a salire o scoppierà, le sue pulsazioni rimasero a centotrentotto. Sono uomini come gli altri, mi creda. Per me c’è solo un giorno in cui son diversi dagli altri, superuomini forse. Ed è la vigilia della partenza: quando vanno a dormire, tranquilli, si addormentano immediatamente, tranquilli, poi all’alba che potrebb’essere la loro ultima alba si svegliano riposati e contenti come se andassero a caccia di folaghe”. E quando partirono per la Luna, dottore? Anche allora si svegliarono contenti come se andassero a caccia di folaghe? “Sicuro. Il sistema è lo stesso e non dimentichi che sono soldati: andare sulla Luna per loro è come andare alla guerra, ma con meno probabilità di morire. Si rendono conto, evidente, che rischiamo di andare a morire: tuttavia sanno bene che non li faremmo andar su se le probabilità di salvezza non fossero al 99,99 per cento. Una cosmonave è meno pericolosa degli aerei supersonici che erano abituati a collaudare, e da terra li seguiamo secondo per secondo, possiamo portar loro soccorso. Perché dovrebbero essere meno tranquilli?”. Perché vanno sulla Luna, dottore. “Sciocchezze. Anche sulla Luna li seguiamo, le ho detto: mentre atterrano, scendono, si spostano…”. Dottore scherziamo? Un uomo ha aperto una capsula e scende su un mondo dove nessuno è mai stato: ed egli lo sa. Appoggia i piedi dove nessuno li ha mai appoggiati, gira gli occhi dove nessuno li ha mai girati: ed egli lo sa. Lentamente, cautamente, fa il primo passo; l’umanità intera, coloro che sono morti, fa quel passo con lui: ed egli lo sa. Non v’è scoperta di isola, né di oceano, né di continente in questo pianeta che possa paragonarsi a quel primo lentissimo, cautissimo passo: ed egli lo sa. L’oggetto dal quale è disceso potrebbe non ripartire mai più, condannarlo a morire su questo deserto e lontano centinaia di migliaia di miglia da casa: ed egli lo sa. Dottore, lei crede davvero che le sue pulsazioni non supereranno le centotrentotto al minuto? Ma cos’è, quest’uomo, un robot? “Gli astronauti”, dice il dottore, “non sono robot. Non volevamo robot”.

Oriana Fallaci,
"L'Europeo" n° 52, 1968